Pubblicato da: Andrea | 25 gennaio 2011

Che poi non è la conclusione, ma il modo.

“Che poi non è la conclusione, ma il modo. Ho passato una vita a ricercare quello perfetto, studiandolo nei minimi dettagli. Voce. Sguardo. Posizione delle mani. Volevo che ogni cosa stesse al suo posto, si incastrasse nella situazione generale esattamente come il tassello di un puzzle si incastra con tutti quelli che gli stanno a fianco. Niente sbavature, o imprecisioni: ogni bordo ritagliato a regola d’arte, sufficientemente irregolare per garantire la giusta dose di difficoltà, ma altrettanto preciso per fare sì di trovare la sua corretta collocazione, senza intoppi. Ecco, in fondo era questo ciò a cui aspiravo. Non un finale perfetto, roba da fuochi d’artificio sparati in cielo a illuminare la città. Nessuno sguardo rivolto verso l’alto, nessuna attesa spasimante di istanti di gioia bramati. No, non doveva essere così: in realtà volevo che a diventare memorabile fosse l’istante appena prima, quello dove avrei preparato il terreno per la scena di chiusura, la più imprecisa e triste di tutta la storia, quell’ultima riga che avevo temuto con ansia e che ora sarebbe arrivata a ribaltare tutto. Eppure non mi preoccupava dover provare sulla mia pelle quel colpo di scena sconvolgente, perchè a contare sarebbe stato solo ed esclusivamente la frase scelta per dire le cose, la modulazione impressa alle parole, il modo di metterle insieme in un mix omogeneo, di costruirsi un dolore nella maniera più atroce e sublime che avrei mai potuto inventare.”


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